Il lavoratore oggi

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C'era una volta... la "classe lavoratrice"

Con l'affermarsi dell'industrializzazione e del lavoro salariato, in occidente aveva preso forma un nuovo soggetto sociale: la classe lavoratrice. Con questa espressione, apparentemente generica e poco significativa, si deve intendere l'insieme di tutti quegli individui per i quali il lavoro costituisce l'unico potenziale mezzo di guadagno, in assenza di altre fonti di ricchezza (rendite fondiarie, patrimoni familiari e così via). Tale condizione, oggi comune a molte persone e di per sé non carica di implicazioni negative, agli inizi del processo di industrializzazione assunse connotazioni spesso drammatiche: poter contare solo sul proprio lavoro per vivere era sovente il misero epilogo di un processo di impoverimento che trasformava contadini, artigiani, piccoli bottegai e altre persone private dei tradizionali mezzi di sostentamento in operai salariati costretti ad accettare miseri compensi, sufficienti appena a garantire loro la sopravvivenza. Per designare questa schiera di persone si cominciò a utilizzare — o meglio a "riutilizzare", giacché il termine risaliva addirittura all'antica Roma — l'appellativo di proletari, indicante, letteralmente, coloro che "posseggono" soltanto i propri figli (la propria prole), anch'essi braccia potenziali da avviare al lavoro. Dei proletari cominciarono a interessarsi molti studiosi, come gli economisti Jean-CharIes-lionard Simonde de Sismondi (1774-1842) e Lorenz von Stein (1815-1890), il filosofo e sociologo Henry de Saint-Simon ( 1760-1825) e, soprattutto, Karl Marx. Nei Manoscritti economico-filosofici (scritti nel 1844, ma pubblicati postumi nel 1932), Marx descrive la condizione del proletariato industriale nei termini di un'inesorabile estraniazione del lavoratore dalla sua attività, e, in ultima analisi, dalla sua stessa natura umana. Privo di ogni diritto sui prodotti della sua opera, asservito a ritmi di lavoro indipendenti dalla sua volontà perché dettati dalle macchine, costretto a percepire gli altri individui come temibili concorrenti nella lotta per l'occupazione, l'operaio industriale vive il lavoro non come una realtà che lo realizza e lo completa, ma piuttosto come un'attività a lui estranea, in cui è semplice strumento di fini che non gli appartengono. E poiché, secondo Marx, il lavoro non costituisce un'attività tra le tante, ma l'attività più tipica dell'uomo, quella che Io distingue dal mondo animale e Io rende capace di modificare la natura che lo circonda secondo i propri progetti razionali, l'estraniazione dal lavoro comporta quella radicale perdita di se stessi, quell'irrevocabile smarrimento della propria essenza di uomini che lo studioso definisce alienazione. Per Marx, inoltre, la proletarizzazione del lavoratore (ovvero il processo per cui il lavoratore diventa proletario) costituisce una tendenza intrinseca del sistema di produzione capitalistico, destinato a generare, a suo giudizio, due dinamiche complementari: 

• da un Iato, la concentrazione della ricchezza in un numero sempre più esiguo di persone: i capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione;

• dall'altro lato, la formazione di masse sempre più ingenti di individui proprietari solo della propria forza lavoro. II processo di proletarizzazione avviene in due direzioni. Da una parte, coincide con la progressiva perdita di autonomia del lavoratore, ridotto al rango di semplice "prestatore d'opera", al servizio di altri (come l'artigiano costretto a chiudere bottega, che diventa operaio dell'industria). Dall'altra, esso si identifica con il progressivo impoverimento economico e spirituale del salariato, che diventa, in rapporto al capitalista, proporzionalmente sempre più povero, più alienato, più dequalificato.


Le trasformazioni del lavoro dipendente

È ancora valida la profezia marxiana sulla proletarizzazione del lavoro dipendente? 

Da un certo punto di vista, essa parrebbe smentita dagli sviluppi della civiltà industriale. Nei paesi occidentali, nell'arco del XX secolo, anziché a un impoverimento generale della popolazione a beneficio di una ristretta élite, si è assistito a un graduale miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, sostenuto da adeguate politiche riformiste da parte dei governi e dall'azione delle organizzazioni sindacali, e soprattutto richiesto dal dinamismo interno del sistema economico, per il quale un benessere diffuso e la conseguente generalizzazione di stili di vita consumistici costituiscono gli antidoti necessari contro il fantasma della sovrapproduzione. Anche l'idea di una progressiva omogeneizzazione e omologazione verso il basso del lavoro salariato sembrerebbe contraddetta dagli sviluppi della storia occidentale. Se agli inizi dell'industrializzazione la classe lavoratrice era composta prevalentemente da operai, addetti al semplice controllo delle macchine, con il tempo essa si è diversificata al suo interno: è cresciuta la componente impiegatizia, sono nate nuove figure (tecnici, progettisti, consulenti), ciascuna delle quali dotata di una specifica professionalità. Ciò ha indubbiamente modificato la percezione che la classe lavoratrice aveva di se stessa: al sentimento di un'identità comune, che guidava le prime rivendicazioni ottocentesche, si è sostituita spesso un'ottica più corporativistica, tesa ad affermare gli interessi di una categoria particolare, o comunque a sottolineare le differenze tra le diverse tipologie di lavoratori. Particolare interesse ha assunto, in questo nuovo contesto, la distinzione tra blue collars e whitecollars (letteralmente, "colletti blu" e "colletti bianchi"), ossia tra la classe operaia e il ceto impiegatizio. A tale distinzione è dedicato l'acuto saggio del sociologo statunitense Charles Wright Mills (1916-1962), intitolato appunto Colletti bianchi (1951), in cui lo studioso effettua una spietata disamina della classe media americana a lui contemporanea, di cui gli impiegati costituivano la categoria professionale più rappresentativa. Nel suo testo, Mills sottolinea come, a dispetto del loro status effettivo, i colletti bianchi americani nutrano illusioni di ascesa sociale e di acquisizione di prestigio, e cerchino con il loro stile di vita di prendere le distanze dagli operai salariati, senza rendersi conto di condividerne in realtà il destino di subordinazione e spersonalizzazione. Come il saggio di Mills ci suggerisce, la proletarizzazione del lavoro salariato è un fenomeno molto più reale di quanto gli stessi lavoratori possano averlo percepito. Al di là delle differenti professionalità, mansioni e retribuzioni, nella società industriale avanzata i lavoratori dipendenti condividono di fatto una medesima condizione, caratterizzata dalla mancanza di controllo sulle condizioni di erogazione del lavoro, dal rischio disoccupazione, e, in misura sempre maggiore, dalla precarietà dello status economico. Ne è una spia il divario sempre più ampio tra un'élite detentrice di ingenti patrimoni e il resto della società, a cui si assiste anche nei paesi economicamente più sviluppati (v. Unità 17, pp. 491-493), e la conseguente scomparsa del cosiddetto "ceto medio", in cui tradizionalmente confluivano i "colletti bianchi" dell'industria.


La terziarizzazione del lavoro

Parlando delle trasformazioni del lavoro dipendente, non si può non menzionare un fenomeno importante che ha caratterizzato l'economia dei paesi industrializzati nel corso del XX secolo e degli ultimi decenni in particolare: il processo di terziarizzazione. Con questo termine si indica la progressiva espansione del settore dei servizi, che ha finito per accogliere una quantità sempre più consistente di forza-lavoro. Illustriamone brevemente le dinamiche. L'industrializzazione è andata d
i pari passo con la diffusione della vita urbana e la crescita delle città ha richiesto una serie di servizi (commerciali, amministrativi, finanziari ecc.) che hanno finito per creare altrettanti sbocchi occupazionali. Sono state inoltre le stesse esigenze delle industrie a stimolare l'incremento del terziario: una produzione sempre più massiccia e diversificata comporta infatti lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni, la moltiplicazione dei punti vendita, la nascita di attività legate a servizi bancari e assicurativi e così via. Questo significa che la terziarizzazione non si è contrapposta allo sviluppo del settore secondario (industria), ma ne è stata un logico completamento. Esiste un terziario "tradizionale", che si identifica con i settori di più antica data: il commercio, i trasporti, il turismo, i servizi bancari e assicurativi. Q
uesti ambiti hanno conosciuto negli ultimi decenni un notevole impulso (si pensi al proliferare dei punti vendita: negozi, ipermercati, centri commerciali, o al moltiplicarsi di strutture e servizi legati all'attività turistica) che ne ha spesso modificato fisionomia e caratteristiche. II fenomeno più caratteristico degli ultimi decenni è però l'esplosione del cosiddetto terziario avanzato (talora chiamato anche "quaternario"), che riunisce il complesso dei servizi caratterizzati da un'elevata specializzazione e professionalità: la ricerca scientifica e tecnologica, il marketing, la pubblicità, la fornitura di supporti informatici. Il terziario avanzato rivolge i suoi servizi non tanto alle persone, ma principalmente alle imprese, andando incontro all'esigenza, da esse avvertita, di promuovere attività necessarie per la crescita dell'impresa stessa anche se non direttamente produttive: pensiamo all'informatizzazione delle operazioni contabili e amministrative, all'analisi del mercato, alla comunicazione con il cliente, servizi che non possono essere svolti da personale interno all'azienda e che richiedono pertanto di essere dati in outsourcing, ossia esternalizzati. Per fare un esempio, un call center — realtà ormai familiare nella nostra esperienza quotidiana - è una struttura di servizi che gestisce per conto di determinate aziende le chiamate telefoniche in entrata e in uscita. Con la globalizzazione dei mercati, strutture e persone in grado di prestare servizi del settore terziario avanzato sono spesso ricercate nel panorama offerto dai paesi in via di sviluppo, allo scopo di ridurne i costi: è il caso, ad esempio, dei consulenti informatici indiani, utilizzati ormai dalle imprese di tutto il mondo (v. Unità 17, p. 492).


Tra mercato e Welfare: il cosiddetto "terzo settore" 

Una delle realtà più rilevanti che nelle società occidentali degli ultimi trent'anni si è "intersecata" con il mondo del lavoro è quella del cosiddetto terzo settore: con questa espressione si designa l'insieme di quei soggetti sociali che svolgono attività finalizzate alla promozione del benessere collettivo, agendo secondo logiche diverse sia da quelle delle istituzioni pubbliche sia da quelle delle imprese: cooperative sociali, associazioni di volontariato, fondazioni e organizzazioni simili. La loro natura intermedia tra Stato e mercato risiede nel fatto che, da un lato, sono soggetti privati, che nascono dall'iniziativa di individui o gruppi, ma, dall'altro, a differenza delle attività imprenditoriali avviate da privati per l'erogazione di beni o servizi (industrie, esercizi commerciali), non hanno fini di lucro: gli utili che realizzano non vanno cioè distribuiti tra i membri che vi operano, ma reinvestiti nell'organizzazione stessa. Per questo motivo i soggetti del terzo settore vengono spesso indicati anche con la denominazione "organizzazioni no profit" o "imprese sociali" Accanto a queste caratteristiche comuni, le organizzazioni del terzo settore presentano anche una notevole varietà, relativa sia al loro status giuridico sia all'opera prestata: alcune erogano servizi di tipo educativo o assistenziale, altre si adoperano in attività di inserimento lavorativo per persone svantaggiate, altre ancora forniscono consulenza o assistenza finanziaria. L'esplosione del terzo settore negli ultimi decenni si colloca in un preciso momento della storia dei paesi occidentali. Da un Iato, si assiste alla crisi o al ridimensionamento del Welfare State (v. Unità 16, p. 472) e dell'idea, a esso associata, della centralità delle istituzioni pubbliche per il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini. Questo fenomeno è motivato sia da una congiuntura economica di crisi internazionale che ha costretto gli Stati a ridurre drasticamente la spesa pubblica, sia dall'insoddisfazione dei cittadini stessi nei confronti del servizio pubblico, giudicato spesso insufficiente o inadeguato alle richieste delle persone. Dall'altro lato, è emersa l'impossibilità di ovviare alle lacune dell'intervento statale mediante la semplice attribuzione di tali competenze al "mercato", cioè alle imprese. Queste ultime, infatti, si sono rivelate incapaci di far fronte a esigenze che sono spesso incompatibili con l'obiettivo, da esse dichiaratamente perseguito, di incrementare i propri profitti: pensiamo, ad esempio, all'intervento in favore di soggetti come anziani, disabili o minori in difficoltà. A queste ragioni che spiegano Io sviluppo delle associazioni di terzo settore, occorre aggiungere il fatto che esse mobilitano esigenze e istanze ideali di tipo morale, religioso, civico, preesistenti all'insorgenza della domanda sociale: in esse trovano espressione valori come la solidarietà, l'impegno sociale, il perseguimento di scopi altruistici una questione che è emersa con particolare urgenza negli ultimi anni, soprattutto nel nostro Paese, è quella relativa all'impatto che lo sviluppo del terzo settore può avere sull'occupazione, ovvero la possibilità che esso possa creare nuovi posti di lavoro. Infatti, anche se in tale ambito esiste una quota di operato volontario, cioè prestato gratuitamente dalle persone, è cresciuto tuttavia gradualmente il numero di coloro che vi trovano un'occupazione a pieno titolo, con diverse mansioni e competenze. Sono molte le direzioni in cui il terzo settore può incidere sull'occupazione. Può erogare servizi su commissione della pubblica amministrazione (pensiamo, ad esempio, a una cooperativa a cui un comune appalta la gestione di un asilo nido o di un centro per disabili), creare opportunità occupazionali sostitutive o aggiuntive rispetto ai posti di lavoro pubblici (nel caso in cui, nell'esempio citato, il comune destini alla cooperativa fondi altrimenti rivolti a persone e famiglie, garantendo però a queste la possibilità di usufruire di determinati servizi). Le organizzazioni del terzo settore poSono inoltre operare direttamente con i consumatori, ai quali garantiscono, proprio per l'assenza di finalità di lucro, prestazioni in grado di abbinare buona qualità e costi contenuti. Di tali prestazioni possono avvalersi le stesse imprese: ad esempio, un'industria può rivolgersi a un'organizzazione no profit per garantire determinati servizi ai propri dipendenti (come attività di baby sitting per le lavoratrici madri) e offrire loro quelle condizioni di sicurezza e serenità che possono renderli più motivati e produttivi. Lavorare nel terzo settore non garantisce in genere guadagni elevati, ma per chi vi opera si tratta spesso di un'attività gratificante, che richiede energie, spirito di iniziativa, creatività e innovazione.

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