Alla formazione degli Stati moderni occorre aggiungere un fenomeno importante, che a partire dal Cinquecento produsse effetti decisivi sull'identità culturale delle differenti comunità. In seguito alle scoperte geografiche e alle navigazioni transoceaniche che misero in contatto l'Europa con territori fino ad allora sconosciuti, iniziò infatti una vicenda destinata a contribuire in modo significativo al globale processo di scambio e di contaminazione tra le culture: si tratta della fase moderna del fenomeno della colonizzazione, cioè l'occupazione, a scopo di popolamento o di sfruttamento economico, delle "nuove" terre da parte dei popoli "scopritori".
Nel continente
americano i primi a comparire furono gli spagnoli e i portoghesi, che già con
il trattato di Tordesillas (1496) si spartirono il controllo del cosiddetto
"Nuovo Mondo". I loro primi insediamenti, situati nell'America
centrale e meridionale, erano finalizzati allo sfruttamento, più che al
popolamento: attraverso il sistema delle “encomiendas“ (vasti territori
affidati a governatori che vi esercitavano un potere personale, di tipo
feudale), le masse indigene furono sottomesse e costrette a lavorare per i
nuovi dominatori, in condizioni tali da decimarne drasticamente il numero nel
giro di pochi anni. Nel corso del Seicento anche gli olandesi, gli inglesi e i
francesi cominciarono a insediarsi sui territori americani
centro-settentrionali: in questo caso la colonizzazione fu il risultato di
diversi fattori, di natura non solo economica, ma anche, in particolare per gli
inglesi, politica e religiosa. Il Nuovo Mondo, infatti, accolse, tra gli altri,
oppositori della monarchia britannica e minoranze religiose (come i Puritani o
i Quaccheri), e gli insediamenti a cui diede luogo furono colonie di
popolamento, destinate a divenire realtà territoriali e sociali autonome.
La nascita degli
Stati uniti d'America, avvenuta nel 1783, portò a compimento questo processo e
nel contempo avviò altre dinamiche decisive per la fisionomia sociale e
culturale del paese.
Da un lato, la
penetrazione verso ovest e il progressivo spostamento della frontiera
statunitense
avvennero a spese delle popolazioni native, fatte oggetto di
massacri e deportazioni di massa.
Dall'altro lato, nel corso del XIX secolo e all'incirca fino alla Prima guerra mondiale, il nuovo Stato conobbe ulteriori ondate migratorie provenienti dall'Europa, diverse sia per i fattori che le determinarono sia per la composizione sociale dei gruppi migranti. Se durante l'Ottocento i flussi dall'Europa all'America furono per così dire "trasversali" all'interno della popolazione, e spesso causati da motivazioni di ordine politico e ideologico, tra il 1890 e l'inizio della Grande guerra a spostarsi furono soprattutto contadini provenienti dai paesi dell'Europa sud-orientale, come Italia, Grecia, Polonia, spinti dalla povertà: il loro numero divenne via via più consistente, finché nel 1921 il governo statunitense promulgò l'Immigration Act, la prima legge destinata a regolamentare l'afflusso di stranieri.
Un ultimo fattore
che incise molto sulla fisionomia sociale e culturale del Nuovo Mondo fu la tratta dei neri, che a partire dal
Cinquecento trasportò dal continente africano milioni di individui, destinati a
lavorare come schiavi nelle piantagioni e nelle miniere.
Nel giro di due
secoli gli afroamericani, benché in gran parte decimati dalle disumane
condizioni di lavoro, crebbero in modo considerevole e, seppur relegati dalla
popolazione bianca in uno stato di marginalità sociale che neppure l'abolizione
della schiavitù riuscì del tutto a debellare, divennero una presenza sempre più
significativa all'interno della cultura d'oltreoceano: si pensi, ad esempio, all'impronta
fortemente "nera" di generi musicali ancora oggi altamente
rappresentativi della società americana, come il blues e il jazz.
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