Il
multiculturalismo è la ricetta adeguata per le odierne società multiculturali?
Possiamo affermare che l'attuazione di una sorta di par condicio che metta le
diverse comunità nella condizione di esprimere liberamente la propria
specificità sia la strategia preferibile per migliorare la convivenza di gruppi
differenti sullo stesso territorio?
Molte persone guardano con simpatia a questa soluzione, perché colgono in essa una forma di rispetto nei confronti della diversità e la rinuncia alla deprecabile pretesa, purtroppo spesso vincente nel passato dell'Occidente, di giudicare gli altri basandosi su parametri "eurocentrici" e assolutamente inadeguati. Noi, si dice, non abbiamo il diritto di pronunciarci su norme e consuetudini di comunità diverse dalla nostra, né di impedire ai loro membri di attuarle; pertanto dobbiamo lasciare loro la facoltà di seguire le loro usanze, tenendo gelosamente per noi i nostri costumi occidentali, della cui bontà siamo convinti; fermo restando, per gli uni e per gli altri, il rispetto della legalità. Il discorso, tuttavia, è più complesso di quel che appare a prima vista. In primo luogo, assumere il rispetto della legalità come confine della libera espressione culturale è certamente plausibile; talvolta però si dimentica che questo confine è meno netto di quanto si pensi e che il conflitto tra l'osservanza della legge e quella delle proprie norme e tradizioni può presentarsi con relativa facilità.
es. l'obbligo di essere identificabili con qualsiasi indumento - mussulmane non possono indossare il burka
In secondo luogo, è vero che la tradizione liberale dei paesi occidentali ha sempre additato nella libertà di espressione un valore irrinunciabile, di fronte al quale il potere disciplinante dello Stato deve ridursi all'essenziale. Ma quella stessa tradizione vede nell'individuo, e non nel gruppo, qualunque esso sia, il soggetto primo di questa libertà e, in generale, della sfera dei diritti. Nessuna comunità etnica, religiosa o culturale può pertanto avanzare le proprie pretese, se esse violano espressamente quei fondamentali diritti dell'individuo che la Dichiarazione Universale del 1948 riconosce come Possiamo, ad esempio, accettare la pratica disumana dell'infibulazione, o analoghe mutilazioni genitali a cui ancora oggi molte comunità immigrate intenderebbero sottoporre le bambine? O, al limite, possiamo accettare eventuali forme di compromesso, come quella ipotizzata, proprio in merito all'infibulazione, da un ginecologo somalo che lavora in Italia, secondo il quale si potrebbe proporre alle famiglie immigrate più "tradizionaliste" un'operazione alternativa alla mutilazione genitale, ovvero una puntura di spillo sul clitoride, praticata sotto anestesia, in modo da conservare il rito ma prevenirne gli effetti nefasti ?
Il multiculturalismo è auspicabile?
C'è poi anche un
altro aspetto del progetto multiculturalista che lo rende passibile di critica:
esso riguarda non tanto la sua effettiva attuabilità, quanto l'opportunità, a
livello teorico, dei principi che lo sostengono.
L'essenzialismo
culturale che abbiamo appena descritto può avere risvolti pericolosi sul piano
sociale. L'identificazione della cultura con una sorta di "essenza"
che definisce l'identità degli individui allo stesso modo di un DNA porta
inevitabilmente alla convinzione che essa debba venire accuratamente difesa e
preservata da tutto ciò che può in qualche modo "contaminarla": da
questo derivano la paura della differenza e la messa in atto di tutte le
strategie possibili per esorcizzarla. In sostanza, l'altro, lo straniero, viene
percepito non semplicemente come portatore di una diversa prospettiva con cui
confrontarsi, ma come colui che può sottrarre una parte importante di ciò che
si è, è pertanto egli diviene immediatamente il nemico",
"l'avversario", un soggetto da neutralizzare. L'essenzialismo
culturale porta inoltre a identificare troppo sommariamente le persone con il
gruppo sociale a cui appartengono. C'è poi un'ultima, pericolosa conseguenza
dell'atteggiamento essenzialista. Esso può portarci a difendere
incondizionatamente comportamenti e atteggiamenti esibiti da individui e gruppi
in nome della cultura a cui appartengono, senza chiederci se essi rappresentino
davvero una volontà di libera espressione culturale.
Cogliere gli
aspetti problematici insiti nel progetto multiculturalista non deve tuttavia
tradursi in una chiusura di fronte alle richieste provenienti dalle diverse
realtà culturali presenti nella nostra società, né nel disconoscimento del
valore di risorsa che la differenza riveste all'interno dei rapporti umani.
L'atteggiamento più corretto nei confronti della diversità è probabilmente
quello di assumerla non come un punto di arrivo definito una volta per tutte e
generatore di separazione, ma come un punto di partenza per impostare il
confronto e la crescita comune. Per designare questo atteggiamento, contrario
sia alla frettolosa assimilazione della diversità, sia alla rigida
stigmatizzazione delle differenze, si è soliti usare il termine interculturalismo,
o espressioni a esso equivalenti come "comunicazione interculturale"
o "società poli culturale".
un atteggiamento
che possa essere definito "interculturalità" deve muovere da due
presupposti complementari:
da un lato, dalla
convinzione che, al di là delle diversità etniche, religiose e culturali, gli
individui e i gruppi possano trovare un terreno comune di dialogo, sul quale
affrontare i principali temi e problemi della convivenza civile; dall'altro,
dalla consapevolezza che i valori, i comportamenti e i modelli di vita e di
pensiero possano essere considerati da vari punti di vista, e che le diverse
prospettive, anziché combattersi o ignorarsi reciprocamente, debbano
confrontarsi affinché ogni persona sia libera di snodare tra di esse i percorsi
e le scelte della propria vita.
L'interculturalismo in prospettiva globale
È importante sottolineare che la prospettiva interculturale nasce da un'attenta lettura di tutti i processi sociali della realtà contemporanea, non solo di quelli legati all'immigrazione. Sarebbe infatti riduttivo pensare che la finalità dell'interculturalismo sia semplicemente la gestione delle relazioni tra cittadini e immigrati allo scopo di prevenire i conflitti e migliorarne la convivenza. Questo aspetto è indubbiamente centrale e qualificante, ma non esaurisce l'orizzonte della cosiddetta "Intercultura", il cui significato più profondo è la costruzione di relazioni umane ricche e significative, fondate sull'apertura all'altro e sul dialogo.Non c'è bisogno,
infatti, di aspettare l'arrivo degli immigrati per assistere a episodi di
emarginazione e di discriminazione, perché ovunque possono essere eretti
steccati. Ogni volta che ci chiudiamo
nel recinto mentale del "noi" (noi buoni, giusti, aperti, civili,
progrediti...) innalziamo una barriera oltre la quale ci sono "gli
altri" (meno buoni, meno giusti, meno aperti ecc.); secondo i principi
dell'interculturalismo, invece, l'altro non si oppone all'io, ma in qualche
modo vi è contenuto, perché ciascuno di noi ha dentro di sé la pluralità. Il
nostro io, la nostra identità, è il risultato mai definitivo di esperienze,
incontri, riflessioni, studi, eredità culturale lasciataci dalle generazioni
precedenti e individualmente rielaborata.
La prospettiva
interculturale aiuta quindi a rompere i gusci nei quali spesso
inconsapevolmente ci si chiude per comodità o per pigrizia (il guscio
dell'individualismo, della famiglia-rifugio, del gruppo di amici nei quali ci
rispecchiamo, dell’ideologia che non siamo disposti a mettere in discussione) e
ad aprirci a nuovi orizzonti cognitivi, umani, ideali.
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